Prima di tutto: cosa intendiamo per resilienza?
Si può affermare che l’ambiente sottoponga gli organismi a stress ai quali si adattano e che quindi l’adattamento sia un equilibrio dinamico tra l’organismo e ciò che lo circonda.
Lo stesso tipo di equilibrio che raggiungerebbe una giovane quercia che cresce su un terreno costantemente spazzato dal vento: si svilupperà progressivamente inclinata nella direzione del vento. Se la pianta crescesse in un ambiente calmo e senza vento e solo “da grande” fosse sottoposta allo stesso tipo di sollecitazioni si spezzerebbe.
Diciamo quindi che l’adattamento o meno dell’organismo dipende dall’intensità e dalla durata dello stress: uno stress continuo e progressivo porta ad un adattamento e quindi rafforzamento e ottimizzazione dell’organismo per quel particolare ambiente e sollecitazione.
Questo fenomeno, che si riscontra in natura, ha incuriosito un gruppo di scienziati che ha deciso di esplorarne le potenzialità in campo medico.
Si è partiti dall’ipotesi piuttosto diffusa che i tessuti, in piante e animali, possano essere resi più resilienti dall’attivazione di percorsi evolutivi in risposta agli stress della vita quotidiana: l’attività fisica (per inseguire le prede o fuggire dai predatori), la fame (una costante nella vita degli animali selvatici), l’esposizione al sole, le tossine sviluppate dalle piante che mangiamo (ovviamente se questi stress sono presenti in eccesso, diventano tossici: esaurimento, fame,scottature solari, avvelenamento etc).
Il nostro corpo ha sviluppato sempre meglio la capacità di resilienza indotta dallo stress, per migliorare la nostra sopravvivenza in un sistema pieno di agenti stressogeni, aumentando così la gamma di piante che possiamo mangiare, la resistenza alle radiazioni, la sopportazione della fame finché non si trova cibo.
In altri termini, la resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno, di resistere e di costruire e riorganizzare positivamente la vita nonostante la situazione che abbiamo di fronte potrebbe portare ad un esito negativo. In psicologia infatti si intende sia la capacità di opporsi alle pressioni ambientali che la capacità positiva di andare avanti e di ricostruire un percorso di vita.
Ma si può parlare di resilienza anche da un punto di vista più medico?
In effetti si, in quanto esistono dei trattamenti che aumentano le autodifese dell’organismo, permettendo di fronteggiare processi patologici anche gravi. Sono trattamenti che aumentano la capacità di tessuti e organi di ristabilire un nuovo equilibrio, vicino a quello fisiologico, e diventano interessanti per trattare quelle problematiche che arrivano con l’avanzare dell’età. Aumentando la resilienza dei soggetti anziani, essi avranno la possibilità di fronteggiare meglio i processi degenerativi la cui probabilità aumenta con l’età.
Seguendo questo obiettivo, uno degli elementi che sono stati studiati a fondo è stato lo zafferano con il quale sono stati condotti esperimenti in modelli “in vitro” “in vivo” e su pazienti con patologie oculari come la degenerazione maculare legata all’età (DMLE) e la malattia di Stargardt.
Lo zafferano è una spezia usata per molti scopi. Dal punto di vista culinario è conosciuta in tutto il mondo e utilizzata fin dall’antichità, e dal punto di vista medico abbiamo documenti che risalgono ai tempi di Ippocrate e Galeno.
Gli ultimi studi farmacologici hanno dimostrato i suoi numerosi effetti per la salute come cardioprotettivo, anticancerogeno, neuroprotettivo, antidepressivo e antiasmatico.
Si è visto che , somministrato a basse dosi, lo zafferano è in grado di attivare dei meccanismi cellulari nei mammiferi che sono alla base della loro capacità di rispondere a stress ambientali o patologici.
Si è partiti quindi a studiare l‘applicazione di questa spezia, nel trattamento dei processi neurodegenerativi dell’occhio, più precisamente della retina dove lo zafferano si è dimostrato in grado di mantenere la funzione visiva e diminuire il danno da degenerazione retinica, specialmente in pazienti con degenerazione maculare senile.
Grazie ad un approccio multi disciplinare, che ha visto la collaborazione di laboratori di neuroscienze e di chimica analitica, si è potuto dimostrare l’importanza della composizione chimica dello zafferano utilizzato. Solo lo zafferano Repron (brevettato) possiede le caratteristiche chimiche che garantiscono l’efficacia del trattamento.
In conclusione, si è visto come utilizzando lo zafferano ‘repron’, sia possibile rallentare la progressione di patologie neurodegenerative (degenerazione maculare e malattia di Stargardt) senza dare effetti collaterali.
Un successo della fitoterapia, che si conferma uno strumento molto efficace in applicazioni mirate, quando sia supportata da un rigoroso metodo scientifico che non la faccia scadere nella semplice prescrizione di panacee generiche che fanno bene a tutto.
Tratto da:
Fitoterapia e resilienza – Natural 1 Novembre 2022 di Silvia Bisti (Full Professor of Physiology, External Collaborator NetS Laboratory Neuroscience and Brain Technologies (NBT) Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), Genova.)
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